Corte di Appello di Bologna si pronuncia sulla applicazione della Legge Pinto

Interessante pronuncia della Corte di Appello di Bologna in tema di applicazione della Legge Pinto (Corte di appello di Bologna n. 1237/23).

La legge Pinto all’art. 2 stabilisce, infatti, che: “2. Nell’accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento..” ed ancora “2-quinquies. Non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese anche fuori dai casi di cui all’articolo 96 del c.p.c.”.

Si precisa, allora, nel segno della logica giuridica che rifugge dalla applicazione indiscriminata del concetto di danno in re ipsa, che porterebbe verso il danno punitivo, che, anche quando è accertata la eccessiva durata del processo, secondo la Suprema Corte il Giudice deve discernere e “deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente”, non trattandosi di danno in re ipsa. (Cass. n. 24696/2012 e 19666/2006)”.

La Corte bolognese ribadisce: “Ed ancora, diversamente da quanto asserito dagli appellanti è la stessa norma a prevedere il mancato riconoscimento dell’indennizzo per infondatezza sopravvenuta della domanda; la Suprema Corte stabilisce che “il paterna d’ animo derivante dalla situazione di incertezza per l’esito della causa è da escludersi anche nell’ipotesi di “temerarietà sopravvenuta”, ovvero quando la consapevolezza dell’ infondatezza delle proprie pretese sia derivata, rispetto al momento di proposizione della domanda, da circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio prima che la sua durata abbia superato il termine di durata ragionevole” (ordinanza n. 9552/18).

Ha, dunque, rigettato la domanda risarcitoria relativa, sul presupposto che: “Quindi, secondo la regola del “più probabile che non” la Suprema Corte alla luce degli elementi ora evidenziati ed in ossequio al proprio orientamento maggioritario, avrebbe senz’altro rigettato il ricorso; ragion per cui nessun risarcimento del danno è riconoscibile agli appellanti e non vi sono i presupposti per ritenere l’inadempimento dell’Avv. xxxxxxxx tale da giustificare la risoluzione del contratto professionale”.

 

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